Conoscere il territorio, la realtà in cui si lavora paga sempre: anche l’Onu l’ha capito e da marzo, per non perdere altro tempo nella ricostruzione di Haiti, segue l’esempio di suor Marcella Catozza; che è la scelta di chi non solo sta con Haiti, perché ne sposa la causa umanitaria, ma di chi sta ad Haiti, perché la vive e la considera per quello che è. C’è anche questo episodio nel bagaglio di storie tornato in Italia con suor Marcella a fine gennaio. «Sono a Waf Jeremie perché là sono più contenta, e non la cambierei per nulla al mondo»: se doveva colpire con frasi forti, la religiosa ha fatto centro. Chi l’ha incontrata alla Yamacademy di Gallarate non ha sentito una sola parola scontata. Il motivo è semplice: quanto dice la religiosa di Busto Arsizio, in prima linea negli aiuti alla popolazione haitiana colpita dal sisma, è vero, perché partecipato, sentito e sofferto. In una parola, perché è la sua vita. Una testimonianza che diventa occasione per riunire chi ha creduto e aiutato la sua opera: amministrazioni, volontari, amici, Itc Tosi di Busto Arsizio, oltre a Bcc di Busto Garolfo e Buguggiate e Yamamay, partner del progetto “Uniti da una fiaba”, la raccolta scritta da donne varesine che a inizio 2011 aveva venduto 2mila 500 copie e, con quasi 24mila euro, contribuito a finanziare la costruzione della casa d’accoglienza “Don Luigi Giussani” nella baraccopoli haitiana. Come ogni vero incontro, quello con suor Marcella, presentato dalla giornalista della Provincia di Varese Marilena Lualdi, è momento di reciprocità: serve al pubblico per conoscere Haiti e alla religiosa per stringere le mani e ringraziare chi ha appoggiato il suo progetto. A rappresentare la Bcc la consigliera Danila Battaglia, che già a novembre aveva seguito il lancio di “Uniti da una fiaba” e che, nel ringraziare suor Marcella e i presenti per le sinergie attivate e con l’augurio di proseguire, ha ricordato la particolare missione della banca, il fine mutualistico e il destinatario del suo operato, il territorio. Ma l’impegno della Banca si può spendere anche oltre i confini di competenza, come è il caso di Haiti o, qualche anno fa, del reparto di Pediatria realizzato a Mutoy, in Burundi. Davanti alle telecamere della Rai, che l’avevano seguita ad Haiti, suor Marcella riferisce sui risultati del lavoro post sisma, ultimo dei quali il village italien; 122 alloggi dove vive chi è sempre stato nella baracche. «Eravamo partiti con risorse sufficienti per 10 case -ricorda suor Marcella-. Mi chiedevano: che senso ha costruire 10 case quando ci sono migliaia di persone nelle baracche? Io rispondevo: cominciamo a lavorare. Poi, grazie agli aiuti, sono arrivati i soldi per 122 case». Risultato straordinario più che per il numero per il tipo di edificio: «In molti sono disposti a realizzare una scuola o un ospedale, ma non le case -nota suor Marcella-. C’è la paura che le vendano: perché costruire delle case se non servono allo scopo?». È una logica che suor Marcella non comprende: «Il mio gesto di solidarietà, il mio dono deve essere libero dall’esito; è il rischio collegato alla libertà altrui. Non posso costringere l’altro a fare quello che io credo sia più giusto: come cristiana rispetto la sua libertà, perché essere liberi significa essere responsabili ». La libertà: sta qui la differenza tra il lavoro di suor Marcella e quello di tante Organizzazioni non governative. «Non è vero che rifiuto le Ong -precisa la suora-: le respingo se vogliono fare di testa loro senza conoscere la realtà del luogo. Ben vengano, invece, se si presentano con semplicità: le Ong non devono mettersi al mio servizio, ma considerare un percorso di ricostruzione già iniziato, con tutte le sue specificità». Due modus operandi agli antipodi: ed è inutile ricordare quale sposi ogni giorno la nostra Bcc. Un modo di lavorare che premia, se è vero che l’Onu si è accodata alla scelta di suor Marcella: case dove prima erano le baracche, per trasformare Waf Jeremie e non abbandonarla a se stessa costruendo altrove. «Voglio dimostrare che si possono cambiare le cose dove è più difficile, dove non sembra esistere speranza per chi ci nasce e vive -spiega suor Marcella-. Per riuscirci, però, bisogna restare uniti. So che nascere a Waf Jeremie, in una bidonville, è più dura e che ai suoi abitanti è richiesto di più, ma per incoraggiare i miei ragazzi dico: state cambiando il mondo. E uno di loro, nel salutarmi prima di tornare in Italia: è proprio vero che gli ultimi saranno i primi».